Pubblicato su politicadomani Num 87 - Gennaio 2009

Cinema
Come Dio comanda
Padre e figlio sono legati da un amore tenace e oscuro in cui il rancore verso il resto dell’umanità diventa ragione e modo di vita. Spettacolare nella descrizione dei sentimenti, il film di Salvatores rischia di rimanere schiacciato dalla cappa di disvalori che racconta

di Vincenzo Spalice

Sommersi nel grigio di un non luogo del nord-est Italia, tra case sparse, costruite lungo una superstrada, in mezzo ad enormi depositi di legna, centri commerciali e giganteschi neon pubblicitari, vivono Rino e Cristiano Zena. Sono padre e figlio, e sono una famiglia perché la madre se n’è andata. Cristiano potrebbe essere un adolescente come tutti gli altri, ma è Rino a non essere un padre come gli altri: lavoratore precario, alcolista, razzista e violento, emarginato e tenuto sotto controllo dall’assistente sociale, educa il figlio come può, inculcandogli principi sbagliati, maschilisti, xenofobi, spesso violenti. Il loro è un rapporto d’amore fortissimo, tragico e oscuro. Cristiano ama suo padre, lo considera il suo faro, la sua guida spirituale.
I due hanno un amico, Quattro Formaggi, un disgraziato menomato da un incidente con i fili dell’alta tensione, che lo fa vivere in uno stato para infantile, ossessionato da Dio e da uno strano presepio che lui stesso costruisce. I tre conducono un’esistenza orgogliosa nel tentativo di reagire all’ingerenza dei servizi sociali, ognuno rabbiosamente alle prese con i problemi quotidiani. Poi una tempesta, il lampo di un temporale infinito scatenerà una serie di eventi tragici, inattesi, che non riusciranno a controllare, una sorta di beffa del destino che finirà per mutare per sempre le loro vite.
Dopo il successo di “Io non ho paura” del 2003, Gabriele Salvatores incontra ancora una volta Niccolò Ammaniti, sottolineando anche in questa pellicola il tema delle colpe dei padri e dei rimpianti dei figli. L’ultima fatica del regista metà partenopeo, metà milanese, è il complemento visivo delle parole, la traduzione in immagini del libro di Ammaniti. Si tratta di una favola nera, vibrante, nervosa, immersa in un luogo di sassi e fango, abitato da tre personaggi divorati da un sordo rancore, al limite del nichilismo, che si trascinano giorno dopo giorno, tra voglia di integrazione e profonda insicurezza.
Buona prova per gli attori Filippo Timi, Elio Germano e l’esordiente Alvaro Caleca. Decisamente sotto tono invece l’interpretazione di Fabio De Luigi, nel ruolo abbastanza delicato dell’assistente sociale, che non convince.

Il film non tradisce le attese, ma si colloca un gradino più in basso rispetto a “Io non ho paura” e “Mediterraneo”. Tra gli aspetti che non convincono del film ci sono l’incupimento eccessivo del quadro generale ed un certo sovraccarico di “disvalori”, che, seppure trovano ragion d’essere in certi fatti di cronaca dei giorni nostri, finiscono per confinare i tre protagonisti fra gli emarginati “destinati” alla tragedia e all’oblio. Anche la scelta di adeguare stile e narrazione a un codice pseudo-realistico rischia di schiacciare la storia sotto la cappa della disperazione sociologica, dove tutto sembra preda di un male metafisico e indistinguibile. Spettacolare, invece, è la cura per gli aspetti emozionali, soprattutto nella descrizione del filo invisibile che lega padre e figlio, un filo indistruttibile fatto di un amore difficile da capire, permeato di un’energia animale, che si esprime con un codice atipico, ma che alla fine commuove.

 

Homepage

 

   
Num 87 Gennaio 2009 | politicadomani.it